sabato 1 dicembre 2012

Il dopoguerra, l’inquietudine nelle fotografie e in alcune pagine della letteratura Terza Parte

Germania: la danza macabra



Soldati tedeschi che lasciano il Belgio dopo la rivoluzione del novembre 1918, disegno di E. Renard, in L’epopée belge dans la Grande Guerre, Ed. Librairie Aristide Quillet, 1923




Soldati tedeschi che lasciano il Belgio dopo la rivoluzione del novembre 1918, disegno di E. Renard, in L’epopée belge dans la Grande Guerre, Ed. Librairie Aristide Quillet, 1923



I disegni pubblicati su un libro ben rilegato, ricco di fotografie e illustrazioni, “L’epopée belge dans la Grande Guerre”, mostrano il ritorno a casa dei soldati tedeschi che hanno sulle divise un nastrino rosso. In Germania c’è la rivoluzione e i socialisti, guidati dal moderato Ebert, il “sellaio” come lo dipinge la propaganda reazionaria e nazionalista, sono al governo della nazione. Non è però la rivoluzione: nonostante le speranze che si accendono in Germania per un rinnovamento profondo della società, prevale invece un sentimento di sconforto e di disadattamento dei reduci dal fronte. Nella letteratura del Novecento questo sentimento è stato descritto da Eric Maria Remarque nel suo secondo romanzo, “La via del ritorno”, pubblicato nel 1932. Non ebbe lo stesso successo di “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, ma non è privo di interesse, sia letterario che storico. Questa è la riflessione di Ernesto, il protagonista, quando si accorge che lui e i suoi compagni non sono compresi da chi è rimasto a casa e non ha vissuto l’esperienza della guerra di trincea.
“Per troppo tempo si è avuta compagna la morte: era una giocatrice svelta, lei, e ad ogni momento ne andava tutta la posta. Questo ci ha messo nel sangue un che di sconnesso, di frettoloso, di calcolato per l’attimo che fugge, quindi ci sentiamo vuoti, perché non è cosa adatta a queste circostanze. E questo vuoto ci rende inquieti, perché sentiamo che non siamo compresi e nemmeno l’amore ci può giovare. Un abisso insormontabile è spalancato tra i soldati e i non soldati. Ci si deve aiutare da noi.”
[Da “La via del ritorno” di Eric Maria Remarque, pag. 139, Ed Mondadori 1972, prima edizione 1932.]
I giovani che sono andati al fronte sono cresciuti nella Germania guglielmina, nazionalista, militarista e in cui si è insediato un irrazionalismo evocatore di una catastrofe imminente per il tramonto di alcuni valori che la modernità tecnologica mette in discussione. La guerra è stata la medicina contro questa angoscia esistenziale. Nel corso del conflitto, soprattutto all’inizio, i tedeschi si sono fidati delle classi dirigenti, dei generali e principi che promettevano la vittoria. Poi sono affiorati i dubbi, le incertezze e infine sono emersi il disincanto e l’aperta protesta contro il massacro. In “La via del ritorno” Remaque ambienta in una caserma desolata, il congedo di un ufficiale dai suoi soldati e lo fa con un dialogo tra un soldato pacifista e il suo comandante.
“Heel passa da uno all’altro e stringe a tutti la mano. Giunto da Max Weill, dice con le labbra sottili: -Adesso comincia la sua epoca, Weill-
-Sarà meno sanguinosa- risponde Max con calma.
-E meno eroica- dice Heel di rimando.
-Non è la cosa suprema della vita- dice Weil.
-Ma la migliore- obietta Heel –Che altro sarebbe?-
Weil ha un momento di esitazione. Poi dice: -Una cosa che oggi suona male, signor tenente: bontà e amore. Anche in questi c’è l’eroismo-
-No- risponde Heel rapidamente, come se ci avesse pensato da tanto, e aggrottando la fronte –così non c’è altro che martirio, una cosa ben diversa. L’eroismo comincia dove la ragione fa sciopero: col disprezzo della vita. E’ parente dell’ebbrezza, del rischio, delle cose insensate, perché lei lo sappia. Ben poco, invece, dello scopo. Lo scopo, ecco il vostro mondo –Perché? A qual fne? Per quale ragione? – chi fa queste domande, non ne sa nulla.-
Parla con violenza, come se volesse persuadere se stesso.”
[Da “La via del ritorno” di Eric Maria Remarque, pag. 50, Ed Mondadori 1972, prima edizione 1932.]
E inutile dire che il dialogo mette in scena le due Germanie che si fronteggiano alla fine della guerra: prevarrà, negli anni Trenta, quella dell’ufficiale ed Eric Maria Remarque dovrà abbandonare il suo paese.
Una fotografia formato cartolina rappresenta questa fiducia che i tedeschi avevano riposto nelle loro classi dirigenti. E’ inviata da un soldato a sua moglie o fidanzata. Nel testo sul retro, non c’è alcun riferimento all’immagine in cui il figlio del Kaiser Guglielmo II, il Kronprinz Guglielmo di Prussia (1882-1951) stringe la mano a un soldato. Foto-cartoline di questo tipo evidentemente erano stampate e diffuse per alimentare la fiducia. Fu inviata nell’aprile del 1916, mentre era in corso la battaglia di Verdun.

Foto-cartolina inviata il 23 aprile 1916 da un soldato di nome Karl che ringrazia per le buone sigarette che gli sono arrivate



Il vincolo che si è formato tra i soldati al fronte è molto forte, ma ancor più forte è quello che si è stabilito con chi è rimasto nelle terre che i tedeschi hanno dovuto abbandonare, i milioni di compagni caduti. Il ricordo di quella sofferenza comune cementa la sensazione di appartenere ad un altro mondo, quello di chi ha fatto la guerra e non trova nemmeno le parole giuste per raccontarla.
“Il cortile ampio e grigio è troppo grande per noi. Lo spazza un tetro vento di novembre che sa di partenza e di morte. Stiamo fra la cantina e il posto di guardia, spazio sufficiente per noi. La vasta superficie vuota intorno a noi ci richiama memorie sconsolate. Lì sono allineati, su molte file, invisibili, i morti.”
[Da “La via del ritorno” di Eric Maria Remarque, pag. 49, Ed Mondadori 1972, prima edizione 1932.]
Un’altra cartolina tedesca, questa volta non una fotografia, ma un’illustrazione, racconta il legame profondo che si è creato fra i soldati. Il titolo è “Kameraden”.

Kameraden, autore ignoto



Sul numero 308 del 19 ottobre del 1919, la rivista Le Miroir pubblica una fotografia che meglio e più di altre, esprime il dramma tedesco e l’inquietudine di questa nazione.

Le Miroir N° 308 del 19 ottobre 1919



Osserviamo il volto di questo mutilato di guerra che mostra al Presidente della Repubblica Ebert, come funziona alla perfezione un arto artificiale con cui potrà compiere i movimenti di una gamba naturale.
E’ un viso in cui la tensione si concentra nello sguardo diretto verso l’obiettivo della macchina fotografica: sulle labbra c’è una piega di tristezza e insieme di sfida. L’uomo solleva il ginocchio in atteggiamento marziale, volge le spalle ai signori che lo circondano e lo osservano con aria quasi compiaciuta per i progressi tecnologici dell’eterna Germania, oggi oppressa dalla miseria e la sconfitta. Come una tragica marionetta, quest’uomo è il rappresentate delle migliaia di mutilati ritratti da Georg Groz e Otto Dix: vagano nelle strade e attendono agli angoli, porgono la mano per domandare l'elemosina ed hanno sul petto le Croci di Guerra guadagnate al fronte. Quest’uomo potrebbe marciare sul palcoscenico di una rappresentazione del teatro espressionista. E’ l’immagine della guerra spogliata da ogni orpello retorico, è la guerra che danza con la morte. La morte si stampa sul volto del mutilato e ci guarda, ci scruta da questa fotografia per scorgere un nuovo segnale che le restituisca il ruolo di prima donna della compagnia.
Nella didascalia di Le Miroir non è possibile rintracciare nulla di ciò che questa immagine, alla luce degli avvenimenti successivi, suggerisce.
La dimostrazione del nuovo arto artificiale avviene alla Fiera di Francoforte che riapre i battenti.
“Il presidente Ebert, venuto ad inaugurare l’esposizione, si è vivamente interessato agli amputati di guerra che gli hanno presentato. Uno di essi manovra la sua gamba artificiale perfezionata, con cui riesce a fare esattamente gli stessi movimenti di una gamba naturale”
L’immagine della Germania è quella di un uomo mutilato che prova a marciare come un soldato.


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